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Una tragedia che ancora ci parla e lo fa con la lingua del lavoro: "Il saldatore del Vajont" di Antonio G. Bortoluzzi

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Bortoluzzi-Il-saldatore-del-Vajont

Il saldatore del Vajont
di Antonio G. Bortoluzzi
Marsilio, 2023

pp. 144
€ 15 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Il 9 ottobre 1963, poco prima delle undici di sera, una frana di proporzioni gigantesche, 270 milioni di metri cubi di roccia, si staccò dal Monte Toc (che in dialetto veneto significa “pezzo”, nomen omen), nelle Alpi bellunesi, e finì nell’invaso costruito appena a monte della diga del Vajont. Il piombare della montagna nel lago causò un’onda talmente alta (250 metri d’altezza) che s'impennò, oltrepassò la diga per infrangersi sul territorio circostante, come un terremoto, causando la scomparsa di un intero paese, Longarone, e la morte di quasi 2mila persone, per la più gran parte sorprese nei loro letti dopo una dura giornata di lavoro nei campi, nelle fabbriche, sulle montagne o nei bar, mentre facevano l’ultimo giro di briscola e ordinavano l’ultima “ombra”, il bicchiere della staffa.

Una tragedia, quella del Vajont che, per tanti aspetti, ha ancora molto da dirci e, nonostante siano passati 60 anni, ci tocca ancora nel profondo, come la splendida pièce teatrale di Marco Paolini e Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, ci ha dimostrato. Nel sessantesimo anniversario di questo tragico avvenimento tante sono state le pubblicazioni, le trasmissioni televisive, i ricordi, le riflessioni che hanno cercato di ricostruire l'accaduto e ne hanno sottolineato le responsabilità. La casa editrice Marsilio ha deciso di commemorare la tragedia con un romanzo di Antonio G. Bortoluzzi, Il saldatore del Vajont, prendendo le mosse da un punto di vista molto particolare, quello del lavoro, con un pensiero particolare a tutti quegli operai, tecnici, manutentori, saldatori, muratori, carpentieri che, con le proprie mani, diedero vita a quella che, per un breve periodo, fu la diga più alta del mondo, gloria e orgoglio del saper fare italiano, simbolo di progresso, mirabolante, avveniristica, enorme scheggia piantata fra le montagne, produttrice di quell’energia che serviva a dare benzina al miracolo italiano.
Il romanzo prende l’avvio da una giornata particolare, quella che il protagonista, saldatore sessantenne che lavora da trent’anni nella zona industriale di Longarone, il paese con due vite, il prima e il dopo, trascorre in una sorta di “gita” nella quale è stato trascinato da un amico ingegnere, la visita alla centrale di Soverzene, alla diga del Vajont, alla frana del Monte Toc.
Tanto lavoro. Non ho mai visto una cosa del genere: la costruzione dell’impianto idroelettrico, il Grande Vajont (…), è stata il risultato di tanti piccoli gesti compiuti da uomini-formica, impegnati insieme, quasi fossero mossi da un’unica volontà, a edificare il paradiso dell’energia che invece sarebbe stato l’inferno della catastrofe. (p. 15)
Tutto il racconto si dipana attraverso parole come calcestruzzo, cemento, sabbia, ferro, dinamite, centina, tondini, reti, passando attraverso gallerie, condotte, cunicoli, scale, ponti, tiranti, osservando e toccando carroponti, generatori, saldature, filetti, bulloni, lamiere. Sono le parole dell’opera delle maestranze, quel linguaggio che Bortoluzzi, scrittore di montagna e di lavoro, da sempre maneggia con consapevolezza e maestria, come dimostrato nel romanzo Come si fanno le cose del 2019 (qui da noi recensito).
E allora seguiamo il protagonista addentrandoci, attraverso un sistema di grotte e di cunicoli, di condotte e di attraversamenti, fin all’interno della montagna, nella pancia della roccia dove si annida una sala macchine che ricorda il mitico Nautilus. In realtà sono quattro gruppi turbine, quattro generatori, costruiti per durare nell’eternità,  «per sempre», come dice la guida. La visita continua poi con la parte più spettacolare, la diga, che tanto è alta e imponente da dare le vertigini. A dispetto delle prime notizie che si rincorrevano nel giorno che seguì la terribile notte della frana, “è crollata la diga”, “è venuta giù la diga del Vajont!”, in realtà la diga sta, tuttora, là dove era stata impiantata,  tra una montagna e l'altra. E i monti di cui parliamo sono i luoghi aspri e poveri che, per un caso, si trovano sulla strada che porta ai villaggi montani scintillanti di negozi e di impianti ultrafamosi, la Cortina dei vip. Appena sopra Longarone (quello nuovo), chi si avventura a visitare i luoghi del Vajont vedrà, improvvisa e drammatica, stagliarsi la diga ancora intatta, rilucente, sinistra, quasi a dire “io sono ancora qui”.
La visita del nostro protagonista prosegue con le condotte, tubi nella montagna che ancora portano acqua e si conclude con il giro sul Monte Toc a osservare il segno della frattura a forma di M che ancora si intravvede e che denota, dopo tanti anni, il punto in cui la roccia si è staccata ed è venuta giù nell’invaso.
La trama è sostanzialmente questa, non ci sono grossi avvenimenti, colpi di scena, non c'è lo sviluppo tradizionale di una storia, se non il resoconto di una visita guidata che conduce a osservare da vicino il mostro, il prodigio d’ingegneria, il motivo d’orgoglio operaio, che si rese responsabile di una delle più grandi tragedie dell’Italia novecentesca. Ma, infine, responsabile chi? La diga? Gli uomini che, pezzo dopo pezzo, la realizzarono? No, responsabili furono coloro che non vollero ascoltare ragioni, i dirigenti che, nonostante mille segnali, studi che sconsigliavano il prosieguo dei lavori e avvertimenti, decisero che era quello il luogo più adatto e quello il progetto migliore. Nonostante le voci, gli appelli, come quelli di Tina Merlin, la giornalista che sulle pagine de L’Unità si scagliava da tempo contro l’abnorme disegno.
In questo libro c’è tutto, l’onore del lavoro, la dignità della fatica, l’orgoglio di essere parte di un progetto importante. Ma poi ci sono anche loro, le persone sbalzate via dall’acqua e dalla vita, strappate in un momento alle loro case, ai familiari. Bambini morti, madri incinte svuotate del loro feto, giovani uomini e donne irriconoscibili, anziani scaraventati lontano dalle loro case, cadaveri sotto metri di fango, mota, sassi, alberi. E prima di arrivare a essere cadaveri, queste stesse persone tornano nei ricordi che la visita alla centrale piano piano fa affiorare nella mente del saldatore. Sprazzi di vita del prima, le piccole gioie, i giochi da bambini, i ricordi dei pomeriggi con il nonno, gli amici, la vita da militare. Nella vita di tutti coloro che abitavano queste contrade c’è un prima e c’è un dopo. Quella notte, quella del 9 ottobre 1963, a fare da spartiacque.
Molto suggestiva e originale l’angolazione narrativa scelta da Antonio G. Bortoluzzi:, il quale non pretendendo di lanciarsi in condanne e strali, prende comunque una posizione molto netta:
Poi sui prati comparvero fessure, che divennero spaccature profonde: i segni del grande distacco. (…) Perché quei contadini non sono stati ascoltati quando hanno scorto sui loro prati, nelle strade, nelle vecchie case quei segni, quelle fenditure? Quella gente aveva constatato il movimento del versante della montagna sotto i propri piedi: non era uno studio geologico, era la loro vita, era dove vivevano da secoli. Bisognava ascoltare la gente che aveva paura, oggi lo sappiamo bene. Ma stavano costruendo il paradiso dell’energia elettrica e l’Italia premeva, attendeva, voleva non quello che eri abituato a dare – braccia e gambe di lavoratori e soldati – ma ciò che non sapevi nemmeno di avere: la ricchezza d’acqua e di salto che scrosciava inutilizzata nei dirupi selvatici. E non è un’obiezione sensata dire che quell’acqua serviva da secoli alle persone e alle bestie, ai campi, ai paesi, perché la tecnica, i progetti, i brevetti, i capitali privati e pubblici lavoravano a qualcosa mai accaduto prima: il miracolo italiano (p. 91).
Il saldatore del Vajont non è un romanzo, o meglio non è solo un romanzo, è un grido di dolore da parte di chi in quelle zone ha sempre vissuto e lavorato ed è stato sfiorato dalla tragedia, è una riflessione sulle responsabilità di chi non ha voluto ascoltare i mille segni infausti accecato dalla luce del progresso, è un ritorno ai ricordi, alla vita di tanti anni prima che riaffiora, spinta da un nome, un oggetto, una voce. E forse questo particolare modo di ricordare la strage del Vajont, questo ritorno al lavoro, al nascere della grande diga che, inconsapevole e incolpevole, divenne il simbolo stesso di una tragedia annunciata, si trasforma in un modo estremo per ricordare le vittime, provare a capire l’accaduto, sentire sulla propria pelle il tremore che ci sconvolge di fronte alla forza devastante della natura, aiutata, in questo caso, da un ottuso errore umano.
E se il racconto ha per protagonista un solo uomo, il saldatore, ben presto si trasforma in un romanzo corale, dove le voci sono tutte quelle del popolo del Vajont, risentite più e più volte negli anni, perché da Erto a Longarone ognuno ebbe il suo Vajont. E il modo in cui lo scrittore ce l'ha restituito, coniugando la precisione del racconto, anche nella descrizione delle parti più tecniche del funzionamento dell'impianto idroelettrico, e l’emozionalità delle parti più dolorose è un percorso nuovo e originale che aiuta a non dimenticare. Né le vittime della tragedia né coloro che a quel progetto lavorarono, spesero il proprio sudore, investirono la propria dignità di operai. Per tutte queste ragioni la scelta, da parte di Bortoluzzi, della lingua del lavoro, quel voler ancorare alla concretezza di gesti atavici tutto l'insensato e incomprensibile dolore che venne dopo, trova un suo senso, una sua capacità di parlare di Vajont con una prospettiva che sembra presa di traverso, ma che tanto significato ha avuto.

Sabrina Miglio